domenica 29 novembre 2015

Facciamo sul serio


Oggi. Inizia il tempo di avvento: com’è banale continuare  a chiamarlo “preparazione al Natale”.
Oggi. Inizia la novena di preparazione alla solennità dell’Immacolata Concezione di Maria: come sono banali i nostri modi devozionali.
Oggi. Il Papa, a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, apre la Porta Santa: l’anno santo straordinario della misericordia inizia, in anticipo sul calendario, in una terra martoriata dalla povertà , dallo sfruttamento, dalle violenze, dalla guerra civile. Parla ai poveri, il Papa, comincia da loro, parla ai rifugiati, nella parrocchia di Saint Sauveur, e li coinvolge nell’annuncio della pace e della fratellanza. Comincia dalle periferie. E va ad aprire l’anno della misericordia nel cuore delle ingiustizie e della guerra.
Come riesce a non essere mai banale quest’uomo, Francesco.

Comincia con un Vangelo difficile questo tempo di avvento, un brano dell’evangelista Luca, chiamato l’evangelista della misericordia, che mette paura. Un linguaggio duro, oscuro, che non riusciamo, nonostante tante esegesi, a intendere.  Sì,  Gesù stesso, in questo brano, parla di paura e usa il linguaggio – per noi ostico- chiamato apocalittico. E i tempi oscuri, insensati e violenti, che stiamo vivendo, tempi in cui pare che l’impegno più serio di tanti sia quello di coltivare la separazione, il sospetto, la contrapposizione, la polemica, l’odio, lo scontro, la guerra, la violenza, infine la solitudine e la paura, questi tempi ci fanno sentire più duro il Vangelo… una parte del Vangelo di oggi. E ci sfugge il cuore: “quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la  vostra liberazione è vicina”. E poi Gesù ci dice come vivere, in queste circostanze, cosa significa risollevarsi e alzare il capo.  Ma noi siamo distratti e banali. Soffochiamo nella banalità, nella superficialità. E in fondo ci è più comoda la paura.

E intanto Francesco, dopo i giorni in Kenya e in Uganda, dà inizio all’avvento e all’anno della misericordia, in Centrafrica.  Sta davvero facendo l’esegesi incarnata del Vangelo che oggi, banalmente, proclamiamo  ascoltiamo e tentiamo di decifrare nelle nostre messe festive. Non so cosa dirà nell’omelia della messa di oggi. So che, vedendolo e ascoltandolo, in questi giorni e soprattutto oggi, la sua omelia, fatta di vita concreta, di scelte radicali e difficili, sorprendenti e rischiose, profetiche, la sua omelia è chiarissima. Fin troppo. È un’omelia scomoda, quella che il papa oggi ci propina. Non si tratta delle nostre banali riflessioni. Delle nostre banali preghiere e emozioni.  È terribilmente scomoda, difficile, urtante, questa omelia che Francesco sta vivendo e gridando in questa prima domenica di avvento 2015. È terribilmente scomodo, difficile, urtante questo anno giubilare della misericordia che Francesco apre oggi in Africa. Come è scomoda, difficile, urtante la pagina di Vangelo di oggi.
Cominceremo a cercare, dentro di noi e nelle nostre famiglie e comunità, un qualche modo concreto, vitale, scomodo, di incarnare il Vangelo dell’avvento e l’anno della misericordia? Un modo di lasciarci illuminare gli occhi e la vita? O ci accontenteremo di qualche pellegrinaggio… non a Roma perché è pericoloso?
Se abbiamo ancora paura solo degli attentati terroristici, significa che ancora non ci siamo accorti dei segni nel sole, nella luna e nelle stelle… non ci siamo accorti di quanto più deflagrante e rivoluzionaria è la forza debole e  pacifica della Parola evangelica.
Vogliamo deciderci a ripetercela, gli uni con gli altri, come fa fare Francesco alle folle che incontra, e a cercare insieme la forza e la possibilità di renderla carne? Che senso ha, altrimenti, venerare l’Immacolata Madre di Dio? Ci guidi lei, con il suo coraggio, a fare sul serio.

domenica 27 settembre 2015

Chi è il proprietario?


xxv domenica T.O.
Num 11,25-29
Sl 18
Gc 5,1-6
Mc 9,38-43.45.47-48

Lo Spirito è libero: Gesù dice che è come il vento. Lo Spirito è Dio: nessuno può appropriarsene.
Eppure è così facile che ci si creda proprietari dello Spirito! O almeno privilegiati destinatari del suo soffio, della sua sapienza, del suo potere.
E che l’errore (peccato?) di credersi proprietari o privilegiati destinatari dello Spirito sia più facile per coloro che hanno ruoli di responsabilità nelle comunità cristiane, ce lo dimostra proprio il discepolo-apostolo Giovanni, colui che chiamiamo il discepolo prediletto, l’amato.
E Gesù, con una spiegazione estremamente semplice, lo disillude, gli chiarisce le idee, o meglio gli apre gli occhi sulla realtà: lo Spirito non è appannaggio di nessuno, neppure degli apostoli, ma è dono. A ciascuno di noi è chiesto solo di rispondere con fede al dono immeritato. Chi compie le opere di Gesù può farlo solo perché lo Spirito agisce in lui attraverso la fede. Chi non è contro di noi è per noi.
Come apre il cuore questa parola,  alla fiducia, alla speranza, alla fratellanza. Se lasciamo che lo Spirito purifichi il nostro sguardo, ogni giorno, possiamo vedere il suo agire libero e buono in tante persone, in tante realtà umane, oltre che in tutto il creato e nella storia.
Come anche, sempre attraverso lo Spirito, ci è dato di riconoscere il male, anche quando è nascosto o mascherato.
Illudersi di essere i proprietari dello Spirito è un male nascosto, mascherato. È un ostacolo, una pietra d’inciampo, uno scandalo, che rende difficile o forse anche impossibile il cammino dei piccoli, che non sono solo i bambini, ma tutte le persone che desiderano il bene e, se gli fosse data la possibilità, seguirebbero Gesù.
 Gesù ci mette in guardia: discepoli e apostoli devono lasciarsi purificare dall’occhio del giudizio, dalla mano del potere e della separazione, dal piede della superbia, altrimenti diventano ostacolo al cammino dei piccoli, che poi sono la stragrande maggioranza dell’umanità e del popolo di Dio. Sono quelli che Dio sceglie perché li ama. E il compito dei pastori è proprio quello di essere strumento perché lo Spirito si diffonda su ogni persona.

MICHELANGELO BUONARROTI, Mosè

“Fossero tutti profeti nel popolo di Dio!”: come è  grande questo desiderio di Mosè, come è di Dio! Gesù è venuto ed è morto sulla croce, ci ha lasciato il suo corpo sacrificato e il suo sangue sparso proprio perché ogni persona venga raggiunta dallo Spirito e diventi profeta, capace di vedere l’umanità con  gli occhi e il cuore di Dio, capace di dire all’umanità la Parola di Dio.

Lo Spirito è in Gesù, nel suo cuore. E Gesù non ha voluto tenere per se quello Spirito che è Signore e dà la Vita, quello Spirito che solo può dare gioia e pace e amore. Ha voluto diffonderlo sull’umanità e per questo ha lasciato che il suo cuore fosse trafitto sulla croce e ne sgorgasse sangue e acqua.
Lo stesso discepolo Giovanni, che un giorno voleva impedire l’agire dello Spirito, sotto la croce, per primo, insieme alla Madre,  riceve il Dono e ne diventa testimone annunciatore:  Colui che ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate (Gv  19, 35).

La missione evangelizzatrice di ogni battezzato e di tutto il popolo di Dio nasce proprio dal desiderio del cuore di Cristo che diventa nostro desiderio: su tutti, attraverso l’annuncio della Parola che suscita la fede, sia diffuso, attraverso i sacramenti, lo Spirito di amore e di santità, che ci rende tutti unica Famiglia di Dio.


La condanna che l'apostolo Giacomo minaccia ai ricchi, che hanno confidato nei loro possessi sfruttando e lasciando nell'indigenza i "piccoli", potrebbe forse essere rivolta anche a chi crede di avere l'esclusiva dello Spirito, della fede, della salvezza?
Qualunque ricchezza non condivisa può diventare causa della nostra condanna.
Lo Spirito ci purifichi e ci converta, perché ogni dono che abbiamo ricevuto non sia nostra proprietà esclusiva, ma come Gesù possiamo farci pane per ogni fame.

sabato 29 agosto 2015

Le imprese del sesso forte


Caravaggio, La decollazione di Giovanni Battista, La Valletta, Malta

Memoria del martirio di Giovanni Battista
Ger 1,17-19
Sl 70
Mc 6,17-29

Poverino, non è colpa sua: è stato sedotto! E lo chiamano sesso forte!
La Scrittura, nel Nuovo e nell'Antico Testamento, presenta tanti casi di uomini che, incapaci di gestire le pulsioni sessuali o di resistere alle arti della seduzione femminile, commettono insulsaggini, ingiustizie e addirittura crimini. Ma non è colpa loro... Sai, le donne...

Ma hanno una mente e un cuore questi sedicenti uomini? Sono persone e dunque responsabili delle loro azioni o solo animali spinti da pulsioni irresistibili? Pulsione del sesso e pulsione del potere, che sono gemelle.

In questo giorno la liturgia ci pone davanti all'uomo Giovanni - non un sesso forte - e a un maschio-bestia succube delle sue pulsioni che lo rendono stupido, vile, miserabile, anche se è re d'Israele. E a due donne, di quelle che, purtroppo, da sempre, si sono rassegnate ad essere femmine, credendo che sia quella l'unica possibilità di esistere davanti al maschio, perché hanno venduto alla sete di potere e di successo la possibilità di incontrare un uomo.
Sconvolgente e straordinariamente affascinante - davvero seducente - l'avvenimento che la Parola di Dio oggi ci fa contemplare.
Non si può non restare abbagliati dalla testimonianza dell'uomo Giovanni. Certo, soccombe all'ingiustizia del prepotente spaventato: è sempre la paura ciò che muove i cosiddetti potenti. Ricordiamo Pilato. Gli tagliano la testa, a Giovanni,ma non possono toglierli la vita, la sua integrità, il suo coraggio, la verità per cui è disposto  a morire. La sua fede. Precursore in tutto del Messia Crocifisso.

Precursore di tutti i martiri, di ieri e di oggi, di sempre, i martiri della giustizia e della verità, i martiri di Dio. Su ogni campo. Non solo dove imperversa l'Isis, che con la sua diabolica violenza rischia di farci dimenticare le altre persecuzioni.
Coloro che vengono uccisi dall'Isis per la loro fede, cristiani o di qualunque altra religione, o perché amanti dell'umanità e delle sue opere, sono vittime di nemici. Ma Gesù ci ha messi in guardia anche da quelli della nostra casa. Ci ha avvertiti che la persecuzione si può sviluppare dentro la stessa famiglia. Parlava forse anche della chiesa, famiglia dei figli di Dio?

Dovunque arriva la sete di potere, anche piccolo - basta mezzo gradino - anche e soprattutto religioso, si sviluppa il germe della persecuzione. Non occorre che sia cruenta. Ci mancherebbe, sono passati i tempi della caccia agli eretici e alle streghe, e comunque i sedicenti uomini di chiesa hanno sempre lasciato che fosse il braccio secolare a sporcarsi di sangue.
E' più facile usare lo strumento dell'esclusione, dell'emarginazione, dell'umiliazione che alla fine umilia sempre il potente che la usa. Soprattutto nei confronti delle donne, che sorprendentemente, nei Vangeli hanno ricevuto una fisionomia luminosa di discepole e mandati inattesi e insperati di missionarie (apostole) evangelizzatrici. E di queste donne una sola è Santissima, Immacolata. Le altre... non proprio.
E non pare che gli apostoli le abbiano considerate concorrenti pericolose del loro potere pastorale. Neppure Paolo, ritenuto misogino da chi ha poca dimestichezza con i suoi scritti, ha messo limiti all'impegno di donne evangelizzatrici, che pare avessero compiti pastorali, non sacerdotali, nelle comunità cristiane.

Con gioia noi donne vediamo che anche papa Francesco - non sedotto da vari poteri - cerca di allargare spazi di responsabilità (servizio!) e di missione alle donne.
Quanto bisogno di evangelizzazione c'è nella chiesa e nel mondo! Nelle nostre città! In Italia e in Europa! Ma forse tanti pastori sono sicuri di potercela fare da soli. Per fortuna non tutti. I veri pastori, preoccupati dell'annuncio del Vangelo a tutti, preoccupati della salvezza dell'umanità, amanti del Regno di Dio, come papa Francesco, non temono la concorrenza delle donne. Figuriamoci! Ciò che sta a cuore a me e a molte altre è l'evangelizzazione e la formazione spirituale, non il sacramento dell'ordine! E i veri pastori non perdono tempo ad insegnare alle donne che nella chiesa non si cercano ruoli ma servizi. Sono impegnati a servire, appunto, e non a difendere ruoli.
A pastori di questa tempra, sacerdoti e vescovi, - uomini come Giovanni Battista - sedotti solo da Gesù Cristo e dal suo Regno, devo la mia passione per la Scrittura e per la teologia, per l'annuncio della Parola, per la formazione dei giovani e delle famiglie, per il servizio ai poveri, quelli ai quali spesso nelle nostre parrocchie diamo solo pane, senza preoccuparci di spezzare il pane della Parola e dell'amore di Dio.

giovedì 6 agosto 2015

Vertigine


GIOVANNI BELLINI, Trasfigurazione, Museo di Capodimonte, Napoli

Festa della Trasfigurazione del Signore
Mc 9,2-10

Non so perché l'artista abbia raffigurato i discepoli sul ciglio di un burrone. Forse per dare l'idea del monte alto, di cui parla il Vangelo di Marco. L'immagine fa una certa impressione; sembra quasi che se i tre facessero un piccolo movimento, cadrebbero nel precipizio.
E se il dipinto volesse indicare il senso di vertigine che i discepoli hanno provato nel trovarsi a vivere un'esperienza così straordinaria? Non dice Marco che erano spaventati?

Come siamo banali e senza fede quando diciamo: Se Dio si potesse vedere...  se si mostrasse...
Dio non è uno spettacolo per curiosi. 

Occorre salire il monte alto, fare la fatica quotidiana della vita, lottare e sudare, farsi consapevoli del proprio limite e della propria debolezza, camminando dietro all'uomo Gesù.
Uomo che condivide la nostra fatica e la nostra debolezza, ma che ci invita a vivere con Lui l'esperienza dell'incontro con quel Dio che egli chiama confidenzialmente "abbà-babbo". L'uomo Gesù, che condivide con noi la fatica della vita, desidera riposare sul cuore di suo Padre e invita i discepoli stanchi e spesso confusi e scoraggiati, a riposare con Lui nell'abbraccio di Dio. Ma non un Dio da baraccone, da vedere solo con gli occhi. 

Nell'abbraccio di preghiera con il Padre, Gesù si trasfigura, si manifesta Figlio, luminoso della luce di Dio. Gli occhi non bastano a vedere, né le parole umane a descrivere: l'evangelista usa un paragone - per descrivere l'aspetto di Gesù - che certamente ha usato il povero Pietro, dato che Marco è stato suo discepolo e segretario; dice che le vesti di Gesù erano bianchissime, come nessun lavandaio avrebbe potuto renderle. Bianchissime come la luce.

E i discepoli contemplano coloro che vivono eternamente della vita stessa di Dio: Elia e Mosè, anche loro uomini esperti di montagna. Prima di Pietro, di Giacomo e di Giovanni, e di tutti noi, questi straordinari amici e servi fedeli di Dio hanno dovuto salire il duro monte della vita, e della missione loro affidata, nella fatica della fede, una fede spesso tentata, nuda, ferita, silenziosa e eloquente, perseguitata. Uomini che hanno sperimentato la vertigine dell'incontro con Dio, nel silenzio e nell'ascolto, per servire l'umanità. 

E forse è per vincere la vertigine che Pietro parla senza sapere neppure cosa dice, ma dice che "è bello". L'esperienza estrema della fede è vertigine, ma "è bello". Sono spaventati, ma "è bello". Il cuore scoppia, ma "è bello".

E poi la nube, la tenerezza dell'abbraccio di Dio avvolge anche loro, poveri uomini chiamati alle altezze, aggrappati alle zolle della terra. Il Padre si china su di loro e li avvolge, come lo Spirito aveva avvolto la Vergine in ascolto della Parola ineffabile e inaudita. E l'orecchio debole del loro cuore può udire la Voce: "Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!"
E poi Gesù solo, con loro, stessi poveri uomini di prima, aggrappati alle zolle della terra, che tornano dagli altri, inviati a compiere una missione indicibile e impossibile, finché il Maestro non sarà risuscitato dai morti. 
E torna la vertigine: loro non sono precipitati nell'abisso, ma Lui, il Maestro, è pronto a tuffarsi nell'abisso della morte, per risalirne vincitore. L'incontro con Dio, il Padre, è sempre uno scontro-incontro estremo, tra ombra e Luce, tra silenzio e Parola, tra terra e Cielo, tra morte e Vita. 
E i discepoli sono chiamati a vivere con il Figlio l'esodo, quotidiano, da Dio verso il mondo e dal mondo verso Dio. Dopo la sua risurrezione dai morti, sull'orlo dell'abisso, nella vertigine della fede, in una missione di indicibile amore per Dio e per l'umanità che Egli ama.

Ma tutta questa missione impossibile sarà possibile nell'ascolto: l'unico comando del Padre. L'unico appiglio nella vertigine. 
Nel silenzio, l'ascolto del Figlio che è Parola del Padre; e nell'ombra si scorge un rapido riflesso di luce; nella debolezza il piede si ferma sulla roccia mentre ogni giorno si apre il cammino. Verso la nostra trasfigurazione in Lui.



sabato 4 luglio 2015

Provvidenziali debolezze degli eletti

CARAVAGGIO, Conversione di San Paolo

XIV domenica tempo ordinario  B
2Cor 12, 7b-10

Non si può negare che Paolo fosse un eletto. Scelto tra tanti, scelto tra i persecutori per diventare testimone privilegiato, per essere apostolo dei pagani. Un cambiamento di vita radicale, da un estremo all’altro. Destinatario di grazie speciali, straordinarie, di cui egli stesso dà testimonianza.
Era Saulo; è diventato Paolo, piccolo: chi è grande davanti a Dio? Non ha detto Gesù, il Crocifisso, che per entrare nel Regno occorre diventare piccoli?

Paolo: il contrario di Simone diventato Pietro.
Strane e incomprensibili le scelte e le opere di Dio.

Simone è fragile. Pur essendo un forte pescatore e, forse, un Bar-Jona, affiliato a un gruppo di violenti rivoltosi, a Simone riesce facile essere debole, fragile. Non deve impegnarsi, gli viene spontaneo, andando dietro alla fragilità delle sue emozioni. E di tanto in tanto deve accorgersi di non essere all’altezza del pensiero e dello stile del Maestro, che si trova costretto a correggerlo e a richiamarlo. Fragile, debole, lui che si credeva più forte degli altri, fino a quella notte spaventosa, fino al canto del gallo che gli fa scoprire il suo nulla, il suo peccato, il suo tradimento, la sua incapacità a restare amico fedele. E non glielo aveva detto Gesù? proprio il gallo, cantando, glielo ricorda. Un piccolo gallo, quella notte, lo schiaffeggia nel profondo del cuore. Lui, Simone, che Gesù aveva rinominato Pietro-Roccia-Forza. Ma non è possibile che Gesù volesse prenderlo in giro, schernirlo, con quel nome che nella notte del tradimento sembra un insulto. Quel nome è la missione di Simone. Ma la sua missione è dono, lo Spirito del Risorto sarà il protagonista vero della sua missione.  Il Risorto è la Pietra angolare e lo Spirito renderà Simone così Uno con Gesù, da renderlo la Roccia della Chiesa di Cristo. La forza dello Spirito nella debolezza di Simone. Forse proprio per la sua debolezza e per l’esperienza di fragilità e di peccato di Simone, Gesù lo sceglie come Pastore di un popolo di deboli peccatori, bisognosi della misericordia che sgorga dal Cuore del Trafitto.

Saulo, invece, è un eletto. Già prima di essere conquistato dal Risorto. Lo spiega lui stesso:  “circonciso all’età di otto giorni, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo” (Fil 3,5). Tutti indicatori di elezione, all’interno del Popolo Eletto. Ma non basta: poi viene eletto anche da Cristo Risorto. Povero Saulo: è vero che si trasforma in Paolo, ma l’elezione è elezione: è la più grande tentazione alla superbia.
Ed è difficile ricordare, per gli eletti, che semplicemente il Signore-Servo del Padre e dei fratelli peccatori sceglie persone deboli per renderli servi, ultimi.
Troppo nella Chiesa si è parlato di elezione in riferimento ai consacrati, in particolare ai sacerdoti. Ma l’elezione riguarda tutti quelli che il Signore chiama alla comunione con lui, cioè tutti, e tutti peccatori. Tutti eletti alla santità, grazie solo alla sua misericordia. E di questa misericordia i consacrati sono servi.
Troppe volte, io consacrata, sento dire che i consacrati sono privilegiati perché sono stati scelti da Dio e perché hanno sacrificato tutto per Dio. E ci sto male. Io non ho sacrificato nulla, ho ricevuto tanto e non so perché. Dio mi ha dato tutto come dà tutto a tutti coloro che sono disposti a ricevere da Lui. Ci dà Se stesso.  È vero, la consacrazione è un dono: questo significa che non sono creditore, ma debitore, verso Dio e verso tutti. Coloro che Dio chiama alla vita consacrata non ne sono meritevoli e neanche lo diventano.
La tentazione della superbia può far credere che  la consacrazione renda privilegiati quanto alle umane debolezze, quasi immuni, comunque migliori, almeno “diversi”, “separati”. A volte lo si nota dai discorsi e dalle omelie, che spesso parlano un linguaggio così diverso e distaccato dalle comuni realtà della vita!
Il Figlio di Dio, che era “tutt’altro da noi” ha voluto essere simile  a noi, uno con la fragilità della nostra condizione umana. Come possiamo noi pensare di servire il Regno “ distaccandoci” dal resto dell’umanità?

Chissà chi sarà stato l’inviato di Satana incaricato di schiaffeggiare Paolo ogni volta che è tentato di superbia! Così tormentoso che per tre volte chiede al Signore di liberarlo. Ma il Signore non è del parere.
Questo Signore che da Ricco si è fatto povero, da Padrone servo, da Onnipotente debole, da Santo tentato, ci sceglie con le nostre debolezze e non intende liberarcene.  
Perché le nostre debolezze, fisiche, materiali, spirituali, persino morali, ci rendono più simili a Lui Crocifisso e Nudo. E per la verità Lui ha voluto essere Crocifisso e Nudo per somigliare a noi, crocifissi e nudi.
La debolezza è ciò che ci identifica come creature, come figli peccatori. La debolezza è  il luogo tutto nostro nel quale possiamo accoglierlo e lasciarci amare.
Papa Giovanni Paolo I ebbe a dire – scandalizzandoci nel suo brevissimo magistero di Vescovo di Roma – che anche il peccato mortale può essere permesso da Dio per mantenerci nell’umiltà, che è l’unica condizione onorevole per noi. Mentre noi, con la scusa di dover dare buona testimonianza, siamo preoccupati dell’immagine che diamo di noi stessi. E cadiamo nell’ipocrisia. Sorella gemella della superbia.


Simon Pietro e Saulo Paolo, due forti deboli, due pastori scelti dal gregge, peccatori come le pecore del gregge, servi del Signore e con Lui servi dell’umanità.  Amati e scelti dal Cristo, hanno dovuto imparare che nella debolezza si manifesta la forza, quella dello Spirito di Dio, che sgorga dal Cuore dell’Umiliato Figlio, che non si vergogna di chiamarci fratelli davanti al Padre.

domenica 21 giugno 2015

Così com'era


GIORGIO DE CHIRICO,  Cristo e la tempesta

Lo stupore è il protagonista di questa pagina di vangelo, che sembra una parabola, ma è un avvenimento: lo stupore pieno di spavento dei discepoli che vedono il sonno assurdo del Maestro mentre stanno affondando; lo stupore del Maestro per la mancanza di fede dei suoi discepoli. Di nuovo lo stupore dei discepoli per il potere inaudito del Maestro che fa tacere il vento e calmare il mare in tempesta; lo stupore – il mio stupore – di chi legge un simile racconto.
E la parola che più mi stupisce, la più strana del Vangelo, forse: “lo presero con sé, così com’era, sulla barca”.
È come un immenso punto interrogativo, che mi costringe a fermarmi… a indagare? Forse solo ad ascoltarla, a ripetermela… e contemplarla. È solo un inciso, forse è un errore di trascrizione, forse è finita lì per caso, una parola scappata in più dalla penna dell’autore... Eppure Marco non è uno scrittore prolisso, non è uno abbondante di parole, anzi pare sempre che le misuri. E allora questa frase misteriosa – così com’era – non sarà il seme nascosto da cui fiorisce la spiga? Poco prima, forse nello stesso giorno, Gesù ha proprio parlato del granello di senape. Questo racconto della tempesta sedata è la conclusione del capitolo 4, in cui sono riportate tre parabole il cui protagonista è il seme della Parola di Dio; con queste parabole Gesù intende consegnare ai discepoli il “mistero del Regno di Dio” e invita a saper ascoltare e guardare, per poter vedere, comprendere ed essere salvati.
“Così com’era”: se fosse questo il seme nascosto da cui fiorisce la spiga? Se fosse, in questa piccola parola, nascosto il mistero? Se fosse questo il segreto che non può rimanere nascosto ma essere messo in luce?
“Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!”, ci dice Gesù.
Tanto è assordante il rumore del vento e del mare, della paura, delle grida; tanto è assordante l’emozione che suscita questo racconto della tempesta, a cui la vita è quotidianamente sottoposta, con lo stupore arrabbiato di vedere Gesù che dorme su un cuscino! Tanto è assordante la delusione di sentirsi abbandonati in mezzo alla violenza del mare e della morte! Tanto è assordante lo stupore di una subitanea insperata salvezza venuta dalla potenza della parola del Maestro: “Chi è costui?”. E alle orecchie del cuore in subbuglio sfugge quella piccola parola: “Così com’era”.

Com’è difficile per me, per noi, essere così come sono, come siamo! Forse nemmeno in famiglia, con le persone con cui siamo in intimità, riusciamo ad essere come siamo. Cioè senza maschere, senza trucchi,  senza formalità e formalismi, senza titoli dai quali crediamo di ricevere dignità e ruolo e valore e prestigio e superiorità.

“Lo presero con sé, così com’era, sulla barca”.
Com’è commovente questa parola: lo presero con sé. Può suscitare in noi come un senso di santa invidia. Presero con sé Gesù sulla barca, nella loro vita. Lo presero così com’era, nella sua verità di Uomo, nella sua semplicità di Uomo Fratello che ha persino abbandonato madre e fratelli di sangue per donarsi come fratello a tutti coloro che hanno fame di senso e di vita e di verità e di amore. Uomo e Fratello, come loro stanco e bisognoso di riposo, come un bambino fragile che si consegna fiducioso alla loro perizia di marinai e alla loro premura di amici, che sulla barca non fanno mancare un cuscino.  Uomo consegnato nelle povere mani degli uomini, consegnato ai disagi, alle fatiche, ai pericoli, alla stanchezza e all’amicizia degli uomini. Consegnato alle loro paure e alle loro incomprensioni. Sì, consegnato anche alla loro incredulità, capace di stupire l’Uomo e Dio. Infine consegnato alla loro croce.

Lo presero così com’era, senza saper scorgere nell’Uomo la presenza del Dio vivente, che ha creato i cieli e la terra e il mare e quanto contengono.

Così com’era: forse è nascosto qui il mistero inaudito e insondabile e ineffabile del Dio fatto Carne, consegnato al limite della creatura, al suo dolore, alla sua paura, alle tempeste spaventose che ne sconvolgono, accompagnandola, la traversata della vita. Dio onnipotente nell’amore e per questo debole, Uomo. Tanto Dio da essere Uomo. Che ritrova la sua potenza per salvare i suoi amici e fratelli, ma che chiede la fede per non avere paura quando sulla barca in tempesta c’è lui che dorme. Tanto Dio da consegnarsi per sempre all’amore debole dell’umanità che ha scelto come grembo da cui fiorire e in cui riposare, da cui nascere e in cui essere sepolto, per trascinarla, così com’è, con sé, in quella culla della Vita che è l’Eterno Amore trinitario. E farle raggiungere l’altra riva, che inizia già là dove la vita è consegnata alla luce e alla lotta della fede.


martedì 9 giugno 2015

Un fuoco di paglia?

In febbraio 2002 quattro missionarie fummo impegnate nella missione popolare a S. Antonio Tortal (BL) – 700 m. di altitudine  in vista dei monti del Cadore - insieme con alcuni fratelli cappuccini provenienti dalla Parrocchia di S. Giuseppe Sposo a Bologna, a cui appartiene la nostra fraternità di via Guidotti. A parte il freddo e il ghiaccio che ogni mattina bisognava togliere dall'auto, fu un’esperienza molto positiva e interessante, per l’entusiasmo del Parroco di allora D. Francesco Prade e per la preziosa collaborazione degli animatori giovani e  adulti. Con alcuni di loro si sono mantenuti alcuni contatti, soprattutto quando ci hanno comunicato avvenimenti speciali: matrimoni, nascite e l’ordinazione sacerdotale di uno dei giovani. In particolare ci è rimasta impressa nel cuore la simpatica espressione di D. Francesco, che da qualche anno è andato a riposare in Dio: “È la nuova moderna missione”. Lui di missioni in parrocchia ne aveva fatte spesso con diversi gruppi di religiosi.

Con gioia e gratitudine, più di un anno fa, ci è giunta la richiesta di una nuova missione. Proprio gli animatori laici hanno proposto al nuovo parroco D. Egidio Dal Magro di ripetere l’esperienza della missione di cui sentivano il bisogno, per ridare nuova forza alla vita della comunità, che si trova ad affrontare, come altrove, mutate situazioni sociali e ecclesiali. Il Parroco ci ha confessato con semplicità di non aver mai fatto esperienza di missione popolare, ma uno degli animatori più impegnati, Ezechiele, è il fratello di D. Egidio e, con sua moglie Barbara, non hanno fatto fatica a convincerlo del valore dell’iniziativa. Gli altri animatori sono in parte i giovani di 13 anni fa, oggi sposati con figli. Figlio di Ezechiele e Barbara è don Marco, giovane animatore di allora che oggi è viceparroco in un paese non lontano.

Quando noi missionarie abbiamo incontrato il consiglio pastorale  abbiamo trovato una sorprendente disponibilità a cercare insieme metodi e iniziative per preparare la missione e per realizzarla. Bisogna notare che il D. Egidio è parroco a Trichiana (4000 abitanti) e a S. Antonio (1000 abitanti). La distanza tra i due paesi è 5 km di curve. Insomma il tempo che può dedicare a S. Antonio è limitato, nonostante il suo impegno: la gente è preoccupata che lavori troppo ed è grata per il suo servizio. In questa situazione, il consiglio pastorale, le catechiste, gli animatori dei giovani e tutti i collaboratori hanno capito che la vita della comunità è affidata, oltre che al servizio del Parroco, anche alla loro responsabilità di laici battezzati.
Potremmo dire che questa missione è stata una grande testimonianza dell’importanza della corresponsabilità dei laici nella vita della chiesa e nella sua missione evangelizzatrice.
Scherzando, abbiamo soprannominato Barbara “viceparroco”. Nonostante il suo lavoro presso la Scuola materna, ha avuto in mano l’organizzazione della visita alle famiglie e agli ammalati, distribuendo il lavoro alle missionarie, al missionario P. Rocco Nigro dehoniano e agli accompagnatori. Alcuni di questi hanno saputo mettere in atto strategie simpatiche e intelligenti per preparare la visita delle missionarie e predisporre le famiglie all’accoglienza. Tutti loro, alcuni più timidi, altri più intraprendenti, ci hanno testimoniato di aver vissuto un’esperienza forte, di essersi sentiti missionari, di aver imparato a conoscere di più le persone e le famiglie. Numerosi sono stati i centri di ascolto del Vangelo nelle famiglie, la sera. Molti di coloro che ospitavano hanno sentito viva la responsabilità di invitare vicini e conoscenti. Grazie a tutti loro, non ci sono state perdite di tempo, abbiamo lavorato intensamente.
Domenica 10 maggio, la missione si è aperta con il mandato missionario al mattino e con due momenti molto significativi e intensi nel pomeriggio: la processione con l’immagine della Madonna del Rosario cui è seguito il musical di bambini ragazzi e giovani, registe le catechiste. Titolo del musical il tema della missione che è anche il tema dell’anno pastorale diocesano: VA’ E FA’ USCIRE IL MIO POPOLO.

Mosè è stato inviato da Dio a liberare Israele e Gesù è venuto a liberarci dal peccato e dalla morte. I discepoli di Gesù sono ancora oggi inviati ad annunciare il Vangelo, buona notizia di amore e di libertà per tutti. E questo è lo scopo della missione: ridare slancio all'impegno missionario della comunità cristiana per il bene di ogni persona, dai piccoli, ai grandi, agli anziani, ai malati.
Naturalmente tutta la settimana di missione ha trovato vitalità nella celebrazione e nell’adorazione eucaristica quotidiane. Nonostante il temporale – unico in una settimana piena di sole – un gruppo di anziani ha partecipato alla celebrazione eucaristica in cui è stato amministrato anche il sacramento dell’Unzione.
Dopo gli incontri con i giovani, con alcune famiglie giovani e le confessioni del venerdì sera, il sabato numerosi sono stati i partecipanti all’adorazione eucaristica dalle 20 alle 24, nonostante che i giovani  fossero andati a vivere un’esperienza di comunione e di riflessione in montagna con il parroco. Quando già la chiesa si stava chiudendo, a mezzanotte, sono arrivati e hanno chiesto di fermarsi un po’ anche loro davanti all’Eucaristia. Veramente è stata una richiesta commovente, che Orielda ha subito esaudito, accompagnandoli nella preghiera.
Domenica 17, festa delle prime comunioni, al pomeriggio la missione si è conclusa con una partecipatissima assemblea parrocchiale in cui gli animatori, alcuni giovani e ragazzi hanno pubblicamente testimoniato la ricchezza dell’esperienza vissuta e espresso desideri propositi e suggerimenti per il cammino futuro della comunità.


Noi missionarie, per bocca di Orielda, che ha accompagnato la preparazione della missione, abbiamo dato la nostra testimonianza, espresso la gratitudine al Signore e a tutti coloro che hanno lavorato alla realizzazione di questa esperienza d fede, di spiritualità, di missionarietà ecclesiale. Abbiamo anche lasciato alcuni suggerimenti e incoraggiato un cammino sempre più responsabile e generoso.



Una missione popolare non è un toccasana. Non risolve tutti i problemi della comunità. Non si fa una volta per tutte. E non è vero che sia un fuoco di paglia. Soprattutto se non è affidata solo ai missionari, ma esige l’impegno condiviso tra missionari e laici della parrocchia. È un’esperienza ecclesiale che rinnova il cammino, ridà slancio, intensifica la vita di fede, impegna a una revisione e spinge a un rinnovamento. La quotidianità rischia di far appassire la fede e l’esperienza ecclesiale. O di stressarla. La missione è come gli esercizi spirituali. Il Papa per primo li vive ogni anno. Certo una missione non si fa una volta l’anno, ma ci sono comunità che sentono spesso il bisogno di ravvivarsi.


martedì 21 aprile 2015

Non vedere i segni

Questo tempo pasquale che stiamo vivendo è il tempo in cui la Parola di Dio nella liturgia cerca di educarci a vedere e riconoscere i segni. Perché è pasqua per noi tanto quanto riusciamo a vedere e riconoscere i segni del Risorto, e dunque tutti i segni della sua vita tra noi.
In altre parole, significa che è indispensabile imparare  a leggere. Mi ha fatto sempre tanta impressione l'analfabetismo. Mi sembra che essere analfabeta sia come essere cieco! Vedi dei segni, ma se non li riconosci è come se fossi cieco, come se non li vedessi. Terribile cecità l'incapacità di riconoscere i segni della scrittura. Terribile ignoranza, incapacità di comprendere. 
Per questo è indispensabile lasciarsi educare dalla Parola di Dio che Gesù stesso ci offre con le sue parole e i suoi gesti, con la sua vita, morte e risurrezione. Egli è la Luce necessaria per vedere i segni e riconoscerli, per saperli mettere insieme in modo che possano dirci, svelarci, indicarci, farci conoscere e comprendere la verità.
Troppo spesso si intende la fede come un buio, come un vivere a occhi chiusi e fidarsi. Non sarà creduloneria? Se sono al buio posso credere qualunque cosa, qualunque menzogna. Perché il buio è il regno della menzogna. La verità, invece, è luce e vive nella luce. Ma occorre lasciarsi educare a vedere  e riconoscere i segni.
<<Gesù rispose loro: "In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati" (Gv, 6,26)
Israele, Tabga, Mosaico nella Chiesa della moltiplicazione dei pani e dei pesci

Gesù ci mette in guardia: se non siamo capaci di vedere i segni che egli compie, se non sappiamo riconoscerli e comprenderli, possiamo seguirlo spinti da qualche momentanea emozione, mentre ci sembra che risponda a qualche nostro bisogno. Quell'egoismo radice di ogni male che rivolge il nostro sguardo unicamente verso noi stessi e ci fa vedere solo i nostri bisogni, le nostre esigenze immediate, è il grande nemico che ci rende ciechi, incapaci di vedere i segni della presenza e dell'agire di Dio, ci rende ignoranti e analfabeti della fede e dell'amore, anche se ci sembra di conoscere Gesù e di cercarlo.
E Gesù ci chiede: Perché mi cercate, perché "vedete" i segni o perché vi servono i miei miracoli? Volete colmare di senso la vita o di pane il ventre? Volete imparare a vivere accogliendo l'amore e amando o volete afferrare anche da Dio ciò che vi sembra possa colmare il pozzo senza fondo del vostro egoismo?

MICHELANGELO BUONARROTI, Cappella Sistina,  Peccato originale e cacciata dal paradiso

E' ciò che fa l'umanità fin dall'inizio: afferrare egoisticamente, per la propria soddisfazione, ciò che l'Amore vuole donare all'umanità per renderla capace di amare.
Dio Amore, di cui Gesù è il volto umano, è puro dono di sé a noi, per renderci come lui. Noi siamo continuamente tentati di voler essere come Dio solo per noi stessi. Riusciamo a nutrirci dell'Eucaristia - puro dono - per noi stessi, per il nostro bene. No, spesso non siamo capaci di "vedere" l'Eucaristia, di riconoscerla, di comprenderla. Non vediamo il segno dell'amore. Vediamo solo la nostra convenienza. Facciamo dell'Eucaristia un isolo, a nostro uso.
Facciamo spesso di Dio un idolo, a nostro uso, perché non "vediamo" i segni e dunque non siamo capaci veramente di credere. Non c'è fede vera dove non si "vedono" i segni.
Quando Simon Pietro e il discepolo amato corsero al sepolcro, tutti e due videro i segni, ma solo il discepolo amato li "vide" davvero, cioè seppe riconoscerli, seppe leggerli. I segni erano il sepolcro vuoto e i teli piegati. Egli "vide e credette" (Gv 20,8).

ANDREA VACCARO, Il Risorto appare alla Maddalena

Anche Maria di Magdala aveva visto questi segni, ma neanche lei era riuscita a leggerli. Solo la parola di Gesù che la chiamava per nome riuscì ad aprirle gli occhi, le educò il cuore e lei riconobbe il Risorto e credette. Riconobbe l'amore. Solo questa è la felicità: riconoscere di essere amati. E da lui siamo amati fino alla fine. 
La nostra infelicità, spesso, non dipende solo dal non "vedere" i segni dell'amore di Dio. Non siamo capaci di "vedere" neanche i segni di ciò che ci viene donato nella vita  quotidiana, anche attraverso gli altri: mogli, mariti, genitori, figli, sorelle, fratelli, amici...
Il nostro egoismo, capace di guardare solo il nostro ombelico, ci rende ciechi di fronte a innumerevoli segni. Basterebbe alzare lo sguardo verso l'altro, verso chi ci circonda e condivide la nostra vita; basterebbe accettare la luce che ci viene offerta, fosse anche piccola, basterebbe lasciare che le ferite piccole o grandi della vita ci aprano il cuore - come il Suo - basterebbe che ci lasciassimo ferire da quella croce che è la lotta con noi stessi... e scopriremmo di aver trovato la gioia che cerchiamo dove non c'è, perché la gioia è dono dell'amore. Scopriremmo che siamo amati e  possiamo cominciare ogni giorno ad amare. Ed è la speranza.

sabato 4 aprile 2015

Pasqua: mai più separati !


Sieger Köder, Il Cireneo aiuta Gesù



"Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene" (Mc 15,21)
Probabilmente non avremmo voluto essere nei panni di quel Simone... o chissà... forse sì...
E' difficile mettersi nei panni di una persona vissuta in tempi e circostanze così lontane e difficili e diverse da quelle che noi possiamo vivere. Però ci commuove , ci interpella, ci provoca questa scena. Soprattutto ci costringe a riflettere se la contempliamo raffigurata nel capolavoro di Köder. Quale dei due è Gesù e quale il Cireneo? Forse Gesù è quello con la veste rossa: si intravedono sulla fronte i segni delle spine. Ma quei due sembrano gemelli e sono strettamente abbracciati, guancia contro guancia, abbarbicati alla trave della croce, il volto segnato dalla stessa fatica.

E' il Cireneo che aiuta Gesù... o è Gesù che aiuta il Cireneo?

Quando la vita ci costringe a portare una trave pesante, la chiamiamo facilmente croce.
Ma è croce solo se Gesù la porta con noi, altrimenti è dolore nudo e crudo, inutile, disperante, sterile. E comunque ineliminabile. 

Ci diciamo tante volte, nelle nostre elucubrazioni spirituali, che quando quella trave ci cade addosso, dobbiamo aiutare Gesù a portare la croce. 
Simone non ha scelto di aiutare Gesù. Dice il Vangelo che è stato costretto. Anche noi siamo costretti, ma è l'inquinamento del peccato che ci costringe a portare il dolore, la tribolazione, la morte. E Dio fatto carne, Gesù di Nazaret, entrato per sempre nella carne umana, ha scelto - lui sì ha scelto - di condividere il nostro dolore, la nostra morte. Per questo è sotto il peso della croce. Per questo è innalzato sulla croce. 
La croce: l'eterno segno dell'amore di Dio per l'umanità, per ogni uomo e ogni donna.

Fin dall'inizio l'umanità è crocifissa. E Dio fatto uomo ha scelto di condividere la nostra condizione. 
E' lui venuto - senza costrizione, liberamente - ad aiutarci a portare la croce. E il suo volto diventa assolutamente somigliante a quello di tutti i crocifissi. 

Ma la sua morte scelta per amore  vince per sempre ogni morte umana: è vita! Perché l'amore è più forte di ogni morte. L'amore è vita!  E anche il nostro dolore, nel suo, trova senso e valore; può generare vita.



Marko Rupnik,  Discesa agli inferi


E poiché Lui si è fatto uno con noi crocifissi, noi diventiamo uno con Lui Risorto, Lui che ci trae fuori dagli inferi e dalla morte.

Niente e nessuno potrà mai più separarci da Lui, il Crocifisso Risorto, se non scegliamo noi di abbandonarlo, perché ci ha inseguiti fin nella morte e non smette di incontrarci e sostenerci su ogni via di dolore che sale ogni Golgota, di accompagnarci e illuminarci su ogni strada di disperazione che scende verso Emmaus, di mostrarci i segni indelebili dell'amore dentro ogni stanza sbarrata dalla paura.

E' il Risorto, ma è per sempre il Crocifisso: contempliamo le sue mani, i suoi piedi, il suo costato. 

Noi, inquieti e tormentati Tommaso, toccando tremanti le nostre stesse ferite e quelle dei nostri fratelli e sorelle, possiamo riconoscere le piaghe traboccanti luminoso eterno amore del Crocifisso che è "Mio Signore e mio Dio" (Gv 20,28). Unica speranza.


L'augurio di Buona Pasqua possa essere l'augurio di incontrare il Crocifisso Risorto dentro la nostra stessa tribolazione, dentro la nostra stessa croce, per entrare con Lui nella sua stessa vita che è Amore e Pace.







giovedì 1 gennaio 2015

All'inizio una Madre


ANDREA SOLARI, Madonna del latte


Solennità di Maria Santissima Madre di Dio

Anno 431: il Concilio di Efeso afferma e proclama la fede della Chiesa nella divina maternità di Maria. Poiché l'uomo Gesù, nato da Maria di Nazaret, è anche la seconda Persona della Trinità Santissima, Figlio eterno di Dio Padre, Maria è Madre di Dio. Così il popolo credente già la invocava. Madre di Dio la professa solennemente la fede della Chiesa.
Milioni di bocche credenti, ogni giorno, invocano incessantemente Maria come Madre di Dio. 
Il titolo più evocativo, più semplice, più comprensibile, più vicino al sentire umano, più commovente: Madre.
Certo: Madre di Dio. Parole che dicono una realtà così misteriosa e impensabile! Ma quando guardiamo il Bambino tra le sue braccia, quando crediamo che quel Bambino è il Figlio di Dio, diventato nostra stessa carne nella carne di Maria, sentiamo che lei è anche Madre nostra. Quando diciamo Madre, diciamo la più alta, vera e profonda realtà umana. Da una Madre Dio ha preso carne. Come ogni donna e ogni uomo apparsi sulla terra.
Nell'ottavo giorno dal Natale, la Chiesa celebra il mistero di Maria Madre di Dio e il mistero della circoncisione di suo Figlio Gesù.
Ma poiché la celebrazione di questi misteri coincide con il primo giorno dell'anno civile, semplicemente li dimentichiamo. Anche nella celebrazione eucaristica è più facile celebrare capodanno! 


GIOVANNI ANTONIO SOGLIANI, Circoncisione di Gesù

Mistero di maternità e di sponsalità: le realtà più umanamente comprensibili e affascinanti.
Circoncisione di Gesù: dice il suo appartenere alla carne umana, perché nella carne umana viene incisa indelebilmente l'appartenenza al popolo dell'Alleanza. Prima di stabilire un'Alleanza con Israele attraverso la Legge, nel Sinai, Dio aveva stabilito la sua alleanza con Abramo e la sua discendenza nella carne. Nella carne si realizza ed è feconda l'alleanza sponsale. Colui che, nel grembo di Maria, viene al mondo come Sposo dell'umanità di cui assume la carne, nella circoncisione della sua carne, diventa membro del popolo che Dio sceglie come sposa, in un'alleanza eterna. E nella circoncisione il Figlio di Dio nato da Maria riceve il nome umano di Gesù: Dio salva. Il nome che l'angelo aveva indicato a Maria e a Giuseppe, annunciando la nascita del Bambino, Figlio dell'Altissimo che viene a salvare il popolo dai suoi peccati.


Se allontaniamo un po' lo sguardo ai bagliori fugaci dei fuochi di artificio e le orecchie dagli scoppi assordanti, possiamo contemplare con commozione le lacrime del Bambino e le lacrime della Madre che contemplano le prime gocce di sangue del Figlio, la tenerezza del Bambino a cui la Madre offre il latte del suo seno, la gioia del Bambino che succhia e della Madre che lo bacia nutrendolo. E possiamo scoprire che una luce di speranza si accende sul nuovo anno, perché in quel Bambino e in quella Madre eterno e quotidiano è il coinvolgimento di Dio nel dolore e nella vita dell'umanità. E diventa possibile la gioia.